C'era una volta una famiglia di boscaioli che viveva nel profondo del bosco, composta da madre, padre e tre figli. La loro esistenza scorreva tranquilla nella pace del bosco e gli animali si avvicinavano spesso alla loro casa senza dar segno di paura e senza mai minacciare la vita dei componenti. Ora accadde che la madre dette alla luce un quarto figlio, una bambina dai capelli d'oro e gli occhi di cielo e tutti gli gnomi e fatine del bosco vennero a rendere omaggio alla neonata augurando felicità e portando i semplici doni della na¬tura: fiori, frutti, erbe profumate.
La fata Serenella volle fare una grande dono alla bambina dandole la possibili¬tà di comunicare con gli animali. Così la piccola, alla quale fu imposto il nome di Stella, cresceva circondata da innumerevoli amici: conigli selvatici, pettirossi e scoiattoli le facevano compagnia, svelandole tutti i segreti del bosco. Un giorno la portarono nei pressi di una grotta in cui viveva una vecchia volpe, un po’ scorbutica a dir la verità, che appena vide avvicinarsi quegli estranei, cominciò a protestare che non voleva intrusi e che se ne andassero immediatamente dal suo territorio. Stella allora si avvicinò a lei e le disse: «Non siamo venuti per farti del male. I miei amici sanno che vivi da sola e sei triste. Siamo venuti a chiederti se hai bisogno di qualcosa».
La vecchia volpe raddolcì un po’ lo sguardo e rispose: «Non potete far nulla per me. Sono sola perché il mio gruppo mi ha cacciato e sono anni che mi sono rifugiata in questa grotta e sono tutta piena di dolori per l'umidità che c'è qua dentro».
Stella pensò bene di aiutare la volpe e le portò un po’ di paglia per il suo giaciglio e spesso accendeva un po’ di fuoco per asciugare la tana. Un giorno, mentre stava tenendo compagnia alla vecchia volpe, che ormai era diventata sua amica, fece un fuoco particolarmente fiammeggiante e, guardandosi intorno, vide sul fondo della tana un piccolo passaggio. Chiamò tutti i suoi compagni e insieme si avventurarono per il pertugio portando un legno in fiamme per far luce. Davanti a lei si apriva una grotta enorme, e per la prima volta chissà da quanto tempo, la luce illuminò stalattiti e stalagmiti bellissime e un ruscello limpidissimo che scorreva sul fondo. Sulle pareti tanti disegni di caccia e per terra abbandonate frecce di selce e ossa sbiancate dal tempo.
Stella non aveva mai studiato queste cose sui libri, però capì, con la sua sensibilità, che quello che vedeva era un segreto della Terra; uscì dal per¬tugio e raccomandò ai suoi amici di non rivelare mai a nessuno quel segreto. Alla vecchia volpe raccomandò di fare la guardia alla sua tana perché da lei dipendeva la cura di quelle bellissime cose.
La volpe ritrovò la sua forza e finché visse nessuno entrò mai nel suo covo.
Una vecchia aveva sette figlie, ognuna delle quali aveva a sua volta messo al mondo una bella bambina. Ora tutte quelle bambine erano graziose ragazze di varia età. Prima di morire la vecchia nonna chiamò le nipoti al suo capezzale e disse loro: «Mie adorate nipoti, io ho campato assai a lungo e nella mia vita posso dire di aver avuto più bene che male. Sono stata fortunata e vorrei che anche voi lo foste. Lo vorrei con tutto il cuore e per questo vi dico: non rimanete qui, isolate dal mondo, ma andate e fate le vostre esperienze perché senza un confronto non potrete mai dire se la vostra vita è felice o no».
Allora la nipote maggiore disse: «Com'è che tu, nonna, puoi dire che la tua vita è stata buona, se non ti sei mai allontanata da qui?»
La vecchia rispose: «È arrivata l'ora che vi riveli una cosa che nessuno ha mai saputo, eccetto me e vostro nonno. Io ero la figlia di un importante uomo d'affari e non sono nata qui, come voi credete, ma in una grande città, dove ho visto tante cose belle e tante cose brutte. Quando mio padre morì, io rimasi sola ed ebbi paura di restare in quel mondo caotico e spesso ostile, così mi fermai dove conobbi vostro nonno e dove crebbi le mie sette figlie. Ma ora mi accorgo che qui non avreste opportunità di far vedere quanto valete voi ragaz¬ze. Anche se non siete state a scuola, avete imparato a leggere, scrivere e far di conto e siete state abituate a studiare e a discutere sulle cose; inoltre avete quella classe che forse vi ho comunicato perché anch'io la posse¬devo. Andate quindi in giro. Io aspetterò a morire che voi torniate e mi raccontiate quello che avete visto e fatto».
Le ragazze vollero rispettare le ultime volontà della nonna e partirono, con un certo timore perché non si erano mai allontanate, ma anche con un certo en¬tusiasmo per l'avventura che le attendeva. Ognuna si diresse in una diversa direzione e, come convenuto, dopo un anno si ritrovarono tutte davanti alla nonna per raccontarle la loro avventura.
«Io mi sono innamorata di un uomo d'affari come era tuo padre, e presto mi sposerò» disse la più grande.
«Io mi sono iscritta all'università e diventerò un bravo medico» disse la seconda in ordine di età, e così di seguito le altre:
«Io mi sono messa a scrivere e ho avuto fortuna.»
«Io lavoro in un ospedale come infermiera.»
«Io disegno modelli per grandi sartorie.»
«Io gestisco un negozio.»
L'ultima rimaneva zitta in disparte; allora la nonna le chiese: «E tu, che cosa hai da raccontare?»
«Niente, nonna, io non sono andata lontano. Mi sono fermata in un paese qui vicino e ho trovato lavoro in una fattoria. Spero che anche a me la vita riservi un futuro sereno come il tuo.»
Disse la nonna: «Ora posso andarmene contenta perché ognuna di voi, libera di fare quel che voleva, ha fatto la sua scelta senza subire imposizioni. È quello che più desideravo.»
Chiuse gli occhi e si addormentò.
Un vecchio tanto ricco quanto in gioventù era stato povero, un giorno morì lasciando dei figli, maschi e femmine. Per testamento destinò tutti i suoi beni a chi di loro avesse trovato lo sposo o la sposa più povero. I figli, pur volendosi bene e preferendo che il padre avesse equamente spartito la sua ric¬chezza, decisero di rispettare la sua volontà e si misero in cerca della persona adatta. Chi visitò tutte le bettole della città, chi le baracche che sorgevano in periferia, chi le stazioni vicine in cerca di qualche barbone, e ognuno trovò la persona che riteneva adatta. Al giorno stabilito si presentaro¬no portando con sé il frutto della ricerca: il maggiore aveva trovato una vecchia megera alcoolizzata e mezza sdentata, con un abito cencioso e pieno di toppe; il minore portò con sé una giovane sporca fino all'inverosimile, che si mise subito a frugare tra gli avanzi del pranzo, mettendosi in tasca tutto quello che le sembrava utilizzabile. Le sorelle mezzane avevano trovato due barboni che chiedevano l'elemosina, già vecchi prima del tempo, con gli occhi acquosi e la barba incrostata di sudiciume.
La scelta era davvero difficile perché tutti i quattro personaggi erano ugual¬mente miserabili. Proprio mentre si stavano facendo queste considerazioni, arrivò la sorella più piccola accompagnata da un giovane bellissimo, ben vestito e dai modi eleganti e raffinati. Il fratello maggiore le disse: «Non verrai a dirmi che questo è il tuo candidato. A vederlo mi sembra più ricco di nostro padre».
La sorella rispose: «Infatti così è. Io l'ho incontrato che camminava tutto solo sulla riva del mare e l'ho visto così triste che non ho potuto fare a meno di parlargli e gli ho chiesto: - Non hai amici? -
- No, mi ha risposto, i miei genitori mi hanno sempre proibito di giocare con i miei coetanei. -
- Non hai qualcuno che possa farti compagnia e con cui tu possa parlare? -
- No, i miei sono morti e i domestici provano soggezione a parlare con me. -
- Non hai una ragazza a cui voler bene?-
- Non conosco ragazze, se non quelle che vorrebbero farsi sposare per imposses¬sarsi delle mie ricchezze. -
- Non hai una casa, una stanza dove puoi startene ad ascoltare la musica, circondato dalle cose che ti sono più care? -
- Sono sempre stato in collegio o in stanze di grandi alberghi. Non ho niente di quello che mi dici. -
Allora ho capito che era proprio povero veramente e l'ho scelto per farne il mio sposo, se naturalmente lui vuole».
I fratelli convennero con lei che quel giovane era davvero più povero delle persone che loro avevano trovato e con generosità accolsero il giovane come loro cognato e la sorella come unica erede del loro caro padre.
C'era una volta un piccolo regno, in cui i regnanti erano assai amati dai loro sudditi perché cercavano di esercitare la giustizia e di fare il meglio che potevano per il loro popolo. Tutti gli anni, per le ricorrenze di quel Paese, venivano organizzate feste sui prati sterminati della reggia e per tutti c'era cibo a volontà, suonatori e prestigiatori che intrattenevano la folla.
Un brutto giorno però il re si ammalò e in poco tempo morì. La regina era disperata e a nulla valeva l'affetto dei suoi figli e delle sue damigelle. Un lontano cugino del re approfittò della situazione e si impadronì del regno, mandando in esilio la regina e i suoi figli. Il nuovo sovrano era un uomo rude e crudele e la popolazione, che prima era famosa per la sua ospitalità e sereni¬tà, tanto che la chiamavano "Gente che ride", divenne a poco a poco taciturna e timorosa, e ognuno se ne stava chiuso in casa per timore delle terribili guardie del re che erano state sguinzagliate per tutto il territorio. Il re se ne stava solo nella grande reggia e passava il tempo a escogitare mezzi per aumentare i tributi e per accumulare denaro.
Un bel giorno decise di prendere moglie per avere degli eredi a cui lasciare tutto quel ben di Dio. Così fu emesso un bando e da tutte le parti giunsero fanciulle in età da marito che speravano di essere scelte e di diventar regine. Tra loro vi era una maga, la quale pensò di vendicare il suo vecchio sovrano e la sua regina esiliata facendosi sposare. Ecco che al re apparve una splendida fanciulla, dalle maniere gentili e dal portamento regale. Decise subito di sposarla, ma appena pronunciato il sì, trovatasi sola con il marito, la giovane si trasformò in una vecchia orrenda, dagli occhi cattivi e le mani ricoperte di squame. Il re ne rimase così colpito che non riuscì più a parlare, mentre la notizia del suo mutismo si divulgava rapidamente per tutto il regno. La gente non capiva quel che stava succedendo perché la maga assumeva le sembianze della splendida giovane di fronte agli altri; quando invece si trovava sola con il re, si trasformava nella laida vecchia.
Dopo un anno di matrimonio, per celebrare l'anniversario, fu organizzata una festa grandiosa per volere della regina, che ormai aveva preso completamente in mano la situazione. Era d'estate e gli invitati passeggiavano nel parco, dove zampillavano le fontane dei giardini regali, commentando la sontuosità della festa, ma tutti ripensavano con nostalgia alle meravigliose feste di un tempo, quando c'era il vecchio re.
Il nuovo re, muto come al solito, si aggirava solo per le immense sale da ballo e improvvisamente sentì una gran sete, per cui si avvicinò al tavolo e si servì da bere. La regina, che lo stava osservando, pensò che fosse giunto il momento opportuno per attuare i suoi piani, e trasformò la bevanda in un mortale veleno, così il re appena lo ebbe portato alle labbra, cadde stecchito senza un lamento.
La maga richiamò dall'esilio la regina e i suoi figli e si ritirò nei boschi, dove ancora vive sperimentando i suoi incantesimi.
C'era una volta un bambino, di nome Marco che, nonostante tutti i suoi sforzi, non riusciva mai ad avere buoni voti a scuola e di questo si rammaricava assai perché gli sembrava di buttare via il suo tempo. Invano il babbo e la mamma cercavano di tranquillizzarlo dicendogli che, anche se ora non vedeva i frutti del suo lavoro, in seguito tutto quello che leggeva gli sarebbe tornato utile.
Passavano lentamente i mesi senza che la situazione cambiasse sostanzialmente. Un giorno Marco, demoralizzato, si mise a sedere su una panchina del parco a riflettere sui suoi problemi, e si avvicinò a lui una fanciulla; sembrava che da lei si sprigionasse una luce, tanto le brillavano gli occhi e la pelle del volto, di un rosa tenue, splendeva adorna di riccioli neri. Marco, benché fosse un ragazzo timido, non riusciva a sollevare gli occhi da quella bellissima creatura che gli dava un senso di serenità e di pace.
La fanciulla cominciò a parlare per prima e gli disse di chiamarsi Aurora, di aver sentito come una voce che la spingeva ad andare nel parco e così era venuta e si era seduta su quella stessa panchina. Anche Marco le disse il suo nome e si misero a parlare. Venne buio e quasi non si era accorti di essere lì da tanto tempo. Ormai era tardi e dovevano andare a casa.
L'indomani Marco si recò di nuovo nel parco, sperando di vedere Aurora, ma lei non c'era. Marco attese un po’, poi decise di andarsene e, al momento di muover¬si, vide per terra una penna d'argento con le iniziali incise: M. D. Erano anche le sue iniziali, così Marco prese quella penna e se ne tornò a casa, dove subito provò a scrivere qualcosa: le parole scorrevano facili e ordinate e Marco non avrebbe mai smesso di scrivere, tanto gli sembrava di conquistare un mondo che fino ad allora gli era parso così difficile da penetrare.
L'indomani, a scuola, con la sua solita penna rosicchiata, come gli risultò faticoso comporre poche righe! Allora capì che il merito del suo successo del giorno prima era della penna d'argento, ma non gli parve giusto usarla perché il merito non era suo; lui aveva il suo orgoglio e, se faceva qualcosa di buono, gli piaceva che fosse frutto delle sue capacità. Tenne la penna per qualche giorno, chiedendosi quale mai fosse il suo potere magico, poi si decise e la riportò dove l'aveva trovata, vicino alla panchina del parco. La fanciulla era lì seduta e gli disse: «Ti stavo aspettando. Vedo che hai riportato la penna. Sono io che l'ho portata qui per te perché so che sei un bravo ragazzo e che ti crucci spesso perché non riesci in quel che vuoi. Ma ora capisco anche che sei giustamente orgoglioso e che non accetti successi che non siano frutto delle tue capacità».
«Ma tu chi sei veramente?» le chiese Marco senza distogliere gli occhi da quelli di lei.
«Sono la tua anima. Cerca di mantenermi sempre come tu mi vedi.»
Passarono altri mesi e la vita di Marco subì una brutta svolta: suo padre morì e la madre si trovò in grandi difficoltà per cui fu costretta a cercarsi un lavoro che la teneva lontana per tutto il giorno. La sera, sfinita, non aveva neppure voglia di inghiottire un cucchiaio di minestra e crollava in un sonno breve e agitato. Marco era sempre più solo e cominciò a passare fuori la maggior parte del tempo, incontrò ragazzi della sua età che combattevano la noia e i contrasti familiari andando di sera a rompere lampioni, a compiere piccoli furti, a terrorizzare cani e gatti.
Marco tentò di tenersi fuori dal gruppo, ma come era difficile restare sempre solo in casa! Così a poco a poco anche lui cominciò a provare il gusto del rischio e della beffa. A forza di stare fuori col freddo, finì con l'ammalarsi e dovette rimanere in casa per giorni e giorni. Il primo giorno che uscì dopo la malattia, capitò nel parco e, quasi automaticamente, tornò verso la "sua" panchina. Vi sedeva una creatura orrenda, giovane ma già piena di rughe, con gli occhi infossati e la pelle giallastra, le dita adunche come quelle di una strega.
Marco si sedette in un canto, ma una mano si posò sulla sua spalla ed egli trasalì come se avesse visto una serpe. Dalla creatura si levò una voce chioccia: «Non mi riconosci più, vero? Non sono più bella come un anno fa. Sono quella che tu hai voluto che fossi. Provi ribrezzo? Bene, quello che provi per me, lo provi per te. Non ho altro da dirti. La scelta spetta solo a te, io non posso più aiutarti».
Noi non sappiamo quello che fece Marco. Ognuno è libero di immaginare il finale che vuole, ma ricordatevi che non tutte le storie finiscono bene.
Nonno Drea è un vecchietto tutto grinzoso ma arzillo come un giovanotto; non si sa quanti anni abbia perché a chi glielo domanda, lui risponde: «Ne ho quanti me ne dai» e così c’è chi dice ottanta, chi centoventi, chi addirittura mille. Tanto tempo fa, chissà quanto, nonno Drea era un bel ragazzo che faceva il pescatore, ma era tanto triste perché proprio non c’era portato: tutte le mattine caricava reti e tramagli e, come se c’avesse un masso addosso, se ne andava a pescare con la sua barchettina, che era la stessa con cui si erano buscati il pane il suo babbo e il babbo del suo babbo. A volte, quando era brutto tempo, la tirava in secco sulla spiaggia ghiaiosa di Calafuria e se ne stava a ore a guardare lontano, tra le crespe del mare e pensava che per lui da qualche parte ci poteva essere una vita migliore; bastava che riuscisse ad andare oltre quegli speroni di roccia dove facevano il nido le gabbianelle.
Una volta arrivò alla grotta delle Fate, dove, a memoria d’uomo, nessuno era mai entrato perché dicevano che chi c’entrava non ci sortiva più. Drea si disse: “Tanto, peggio di così, neppure morto” e andò nella grotta buia. Camminò finché arrivò a una spiaggetta inondata dal riflesso cristallino dell’acqua marina. Macché fate! Trovò un vecchio stravecchio con la barba lunga e bianca e gli occhi di mare.
Disse il Vecchio: «Ti aspettavo» e Drea rimase lì basito perché non lo conosceva e non capiva perché aspettasse proprio lui.
Disse il Vecchio: «Cos’hai con quella faccia?» e lo guardò in fondo agli occhi, come se gli volesse scavare nei pensieri e nell’anima, sicché non se la sentì di raccontare bugie e confessò la sua pena: «Io sono scontento della mia vita. Non mi piace fare il pescatore, ma non so fare altro e mi sembra di essere condannato come un prigioniero a vita. Tu che sei vecchio e senz’altro più saggio di me, cosa mi dici?»
Disse il Vecchio: «Vuoi andare in cerca di fortuna? E sia, ti aiuterò. Vai a casa, prendi una pezzo di vela, una sartia e della pece e va’ per il mondo. Con la vela copriti gli occhi di fronte al dolore che vedrai, con la pece tappati le orecchie ai lamenti, con la sartia chiuditi la bocca per non dire parole di pietà. Solo così potrai fare fortuna. Però ti do un ordine: torna da me per raccontarmi com’è andata».
Drea tornò a casa, si procurò vela, pece e sartia e partì verso le colline, fiducioso di tornare presto ricco e importante.
La sera giunse in un macchia e pensò: "Questo è il posto ideale per riposare" e si sdraiò all'ombra di un leccio. Si svegliò al suono di frasche rimosse; subito balzò in piedi spaventato e pronto a colpire con un sasso, ma vide davanti a sé un leprotto con una zampa ferita. Senza pensarci due volte prese un rametto, srotolò la sartia e usò un canapo per legarlo alla zampetta dell'animale che si accovacciò docile tra le sue braccia. Drea accudì per alcuni giorni all'animale, poi si rimise in viaggio, pensan¬do che era già venuto meno a uno dei consigli del Vecchio, e ora la sua bocca era per sempre libera.
Giunse in un pianoro da cui spuntavano delle rocce. Un lamento fioco lo guidò alla bocca ostruita di una caverna. Gridò: «C'è qualcuno là dentro?» Rispose una voce di bambino: «Sono prigioniero di un uomo cattivo che vuole punire mio padre. Qui c'è tanto buio e io ho tanta paura». Drea prese la pece che aveva con sé, ne fece una candela con alcuni fili di lana del suo abito e l'accese sfregando due ramoscelli, poi la passò attraverso un pertugio al bambino, e continuò a parlare con lui mentre cercava di rimuovere le pietre che ostruivano l'ingresso. Riconsegnò il bambino al padre pensando: «Magari sarà ricco e mi darà una bella ricompensa». Ma l'uomo era povero, pieno di debiti e niente poté dargli se non lacrime di gioia e un sorriso di riconoscenza. Drea pensava che senza sartia né pece non avrebbe mai fatto fortuna. La benda poi gli servì per coprire i piedi piagati di un mendicante che andava di paese in paese per rimediare un tozzo di pane.
Drea tornò al suo villaggio e subito si recò dal Vecchio e gli disse: «Vecchio saggio, i tuoi consigli non mi sono serviti a fare fortuna. Sono tornato più povero di prima».
Il Vecchio rispose: «Tu sei così cieco che non vedi la tua fortuna».
Drea rispose: «Ma non ho la vela sugli occhi. Posso vedere benissimo i miei abiti più stracciati di prima».
«Tu sei così sordo che non riesci ad ascoltare la tua felicità.»
«Non ho la pece nelle orecchie, eppure non sento tintinnio né di monete né di pietre preziose.»
«Tu sei così muto che non riesci a esprimere la tua felicità.»
«Non ho più neppure la sartia, e non mi sento affatto felice.»
Allora il Vecchio prese Drea per mano e lo fece chinare sullo specchio d’acqua marina. Drea guardò e vide il leprotto che aveva curato, il bambino che aveva riportato al padre, il mendicante coi piedi sanguinanti e tutti con i loro sorrisi gli dettero un senso di serenità come non aveva mai sentito in vita sua.
Disse allora il Vecchio: «Vedi, se tu avessi fatto come ti avevo detto, saresti diventato ricco a dispetto della povertà e della sofferenza di altri. Io ti avevo ordinato di tornare da me e sei l’unico che l’abbia fatto perché gli altri hanno realizzato il loro sogno, sono diventati egoisti e non hanno più pensato a me. Tu la tua fortuna te la sei fatta ancora maggiore perché l'amore degli altri è il bene più grande che si possa avere. Ora che tu sei tornato qui, il mio compito è finito e posso anche morire. Prendi quello che ti do e va’, lavora onestamente e sarai ancora più fortunato».
Ciò detto il Vecchio poggiò a terra il suo corpo stanco e le sue gambe diventarono remi, le braccia vele, i capelli reti nuove di zecca, dal petto uscirono delle doghe lucenti e dal cuore un timone. Drea rivolse un silenzioso ringraziamento al Vecchio e se ne andò col suo tesoro. Lavorò, lavorò tanto e non se la cavava neppure così male, ma soprattutto si contentò sempre di quel che aveva. È per questo che campa sempre e se la ride dell’avidità della gente.