GENESI ALLA LIVORNESE


"Genesi? E cos’enno, triglie?"


VOCE -      Un giorno Adamo, forse anco scocciato
                di vive’ in quer po’ po’ di Paradiso,
                alla su’ moglie sempre appicci’ato
                senza vedé mai un’anima, un sorriso,
                sdraiato sotto un melo, seriamente
                tirò ‘r bilancio di tutta la su’ vita.
                Pensa e ripensa, ni s’aprì la mente
                E capì che la doveva fà finita.
                S’arzò quindi di botto e disse a Eva:

ADAMO -  “Mi sono accorto che semo soli ar mondo.
                Se Dio l’omini ‘un ce li mette e ‘un ce li leva,
                quando saremo noi morti di sonno,
                ci resterà ‘na grande Terra vòta.
                Quanta tristezza!”

EVA -        “Quanto smarrimento!
                Siccome 'nfino a ora nun ci è nota
                la maniera di riempì ‘sto firmamento,
                domani vo da Dio e dalla Madonna
                a chiede’ che ci mandin du’ angioletti.”

ADAMO –  “I doveri dell’omo e della donna
                saranno di tiralli su perfetti”.

VOCE -       Così fece e l’Artissimo con lena
                ;messe sur tavolino l’ingredienti:
                du etti d’urli, d’edu’azione appena,
                parecchia fame, tanti sentimenti,
                tre chili fra coraggio, muscoli e cervello.
                Impastò tutto per benino e attese
                che lievitasse e gonfiasse a pennello,
                ;poi guardò. Sortì fora ‘na ‘oppia livornese.


STORIE D'UN TEMPO


     I nostri nonni ora son vecchietti
     ma un tempo sono stati de' bimbetti
     che la mamme 'un facevan tribolare
     quando rivava l'ora der mangiare.
     La miseria era nera, tanta la fame
     che ripulivi ammodo anco 'r tegame.
     Con poche cose sapevan cucinare
     piatti che oggi te li poi sognare.
     “Sembra ieri che mi trangugiavo
     la trippa, ir bordatino, e poi… mangiavo
     ir cacciucco, 'na bella tegamata,
     ma nun era la 'osa iscatolata
     come ci fanno intende' le recrame
     di piatti che han levato tanta fame.
     E le frattaglie, che fine hanno fatto?
     Nissuni oggi le vole più ner piatto.
     Ir fegato? Ir cervello? Ma che obbrobio!
     Fra ieri e oggi intesa nun c'è propio.
     A tante donne, già, ni vien l'affanno
     a guardare i fornelli, e se lo fanno,
     c'enno i pre'otti, i surgelati pronti.
     Surgelati e pre'otti? Ce n'è a monti!
     Se'ondo voi, io mi dovrei mette'
     a coce' ir rosbif? E chi lo taglia a fette?
     Puli' 'r pesce? Madonna che schifezza!
     C'è 'r bastoncino. Voi mette' la freschezza?
     Se poi va bene, c'è sempre la fettina
     ch'oggi der tavolino è la regina.
     Se voi mangià le 'iocciole o 'r picchiante
     ti ci vole un centone… ar ristorante!”

SEPPIE CON LE BIETOLE


     Se voi fare un ber pranzetto,
     la ricetta io te la detto:
     pulisci le seppie, poi per un poco
     con olio e aglio mettile ar foco.
     Aggiungi la sarsa e dopo ir sale,
     un po' di zenzero nun ci sta male.
     Per mezz'oretta farai bollire,
     poi bietola lessa ci devi unire.
     Dopo un po'ino ir piatto è finito.
     Mangerai bene, bon appetito!

LA PANZANELLA


     'Na sera, vando a casa ritornai
     chiesi a mi' ma': “Da mangià ca’ fai?”
     Lei messe 'n tavola 'na zuppiera piena
     di pane 'nzuppo e disse: “Vesta è la cena”.
     Io mi misi a pensà: s'è rotta 'r collo!
     o m'ha preso pe' scemo o per un pollo.
     E 'nvece, vando diedi di 'ucchiaio…
     'un era per niente un piatto troiaio.
     Ni 'hiesi: “Dimmi un po’, come si fa?”
     "Pane 'nzuppo, strizzato là per là,
     cipolla, pumidori, olio e aceto
     di vello bono, vesto è 'r su' segreto,
     ir sale, ir pepe, ir basili'o a foglia
     e te ne poi mangià finché n'hai voglia."
     “L'hai bell'e dato a' muscoli un ber tono,
     però ha' ragione, è 'n piatto proprio bono!”

IR BACCALA' ALLA LIVORNESE


      Il baccalà, a sentillo dar nome,
     pare 'n pescio der tutto deficiente
     perché der baccalà, io nun so come,
     si dà a persona che nun vale niente.
     E 'nvece io ti giuro, nome e cognome,
     che è di valità proprio eccellente.
     Lo 'ompri secco, oppure già ammollato,
     lo spelli e poi lo strizzi per benino,
     poi ogni pezzo dev'esse' nfarinato
     e quand'è fritto nell'olio genuino
     sulla 'arta assorbente va asciugato.
     Co' aglio, ramerino e pumidoro
     prepari nella teglia un ber sughino,
     ci metti i pezzi che son color dell'oro
     e li fai 'nsaporì per un po'ino,
     e ti diranno "brava" tutti 'n coro
     vando lo porti sopra ir tavolino.















IR CACCIUCCO NE’ RI’ORDI DI NONNO NANNI


     Boia, da bimbi 'he fame ti s'aveva!
     La nostra mamma guasi 'un rivinceva
     per vede’ di riempì que' buzzi
     che ingollavan di tutto, 'ome li struzzi.
     Ma con que' po'i vaini che c'aveva
     artro ‘e patate o fagioli lei ‘oceva,
     o cavolo o 'nzuppa, e pe' levà la fame
     a vorte si mangiava sputo e pane.
     Ma quando Ottorino, ir pesciaiolo,
     ni portava a casa un ber bugliolo
     di pescio da cacciucco, allora sì era festa!
     Mamma lo ripuliva lesta lesta
     e faceva ir sugo bello abbondante
     ché delle specie ce n'andava tante.
     Ci metteva, nell'ordine di rito,
     porpi e seppie, ir tutto 'nsaporito
     di zenzero e quarche bicchierino
     di vino bono, senza fa a miccino,
     e poi ci'ale, e poi 'r pescio liscoso
     per rende' tutto ancor più saporoso.
     Pigliava un pane, a fette lo tagliava,
     e arrostito co’ l’aglio lo strusciava,
     poi nella scudella, sopra ogni strato,
     ci metteva ir cacciucco preparato.
     Anco s’era parecchio pizzi'ente,
     eppur si trangugiava come niente!
     E ci faceva bé, lo di'o commosso,
     anco un bicchier di vino, vello rosso.
     S'andava a letto spesso traballoni,
     e quelle notti certi stranguglioni!
     Ma armeno s'era belli soddisfatti,
     d'avé mangiato uno di ve' piatti
     che se sapessi mai chi l'ha 'nventato
     lo vorrei suggerì come Beato.
     Da ‘n po’ di tempo alla televisione
     fanno vedé ‘n gruppetto di persone
     che s’alluzza davanti a un porpettino
     affogato ner sugo co’ ‘n grostino.
     Lo ‘iamano cacciucco, ma dispiace
     che un simbolo d’amore e anco di pace
     congelato, drento ‘na scatolina,
     faccia la fine ar più d’una sardina.


LA PAPPA AR PUMIDORO


     Vando la pappa vòi preparare,
     dei pumidori devi pelare,
     in un tegame poi li metti
     con olio, sale, aglio a pezzetti.
     Quando ir sughino è bello tirato,
     aggiungi ir brodo appena scardato,
     sbricioli ir pane (meglio posato)
     e appena tutto è bene 'nzuppato
     mettilo a coce' a fo'o moderato.
     Da urtimo un ciuffetto di basili'o;
     solo l'odore ti rinfranca ir fisi'o.


IR CASTAGNACCIO


     Si fa d'inverno, vando la farina
     è fresca e profumata di 'astagna.
     D'acqua e latte a po'o a po'o si bagna
     finché doventa 'na pasta marroncina.
     Unisci olio, zucchero e sale fino
     e li mescoli a lungo per benino,
     metti i pinoli, 'na bella manata,
     e uva passa, poi dai 'n'artra girata.
     Coci in forno, nella teglia di rame,
     sarai la meglio coca der reame!

LA TORTA DI CECI


      Di'ano che i tortai da noi a Livorno
     fanno la meglio torta che si trova,
     'un c'è Pisa né Massa né d'intorno
     che con la nostra pò vince' la prova.
     Pe' fa 'na teglia bella profumata,
     farina di ceci, acqua abbastanza,
     po'o sale, olio ('na 'ucchiaiata)
     son l'ingredienti di vesta pietanza.
     Ci vole la pazienza di giralla
     finché 'un si scioglie tutta la farina,
     poi bisogna lascià a riposalla.
     Magari la prepari la mattina
     e la sera poi la fai per cena;
     è pronta vand'è bella dorata.
     Io t'assi'uro che ne val la pena,
     specie se l'hai un po' po' 'mpepata.
     Cinque e cinque, un tempo si 'hiamava,
     e quer nome ancor oggi lo porta,
     perché ner pan francese si mangiava:
     cinque centisimi ir pane, cinque la torta.

IR RISO NERO


      Ieri c'avevo a cena della gente
     che voleva mangià robba di mare.
     Mi' ma', ch'è 'na donnina 'nteligente,
     mi disse: "Bimba, nun ti sgomentare!
     Friggi du' totani e quarche fragolina,
     acciughe alla povera pe' antipasto,
     di 'ontorno 'nsalata ricciolina,
     poi 'n ber poncino, e così siei a posto."
     "Mamma, da quando 'n qua, usa 'nvitare
     senza pensare anche a 'n primo piatto?"
     “Ha' ragione, ma ti voglio aiutare
     e poi mi saprai dì se bene ho fatto”.
     E la sera si messe lei a' fornelli,
     fece 'n sosfritto di tutti l'udori
     e a me mi si rizzarono i 'apelli,
     ma poi capii, vando tirò fori
     da 'na seppia ir sacchettino nero,
     che voleva preparà ir risotto
     di cui a Livorno ognuni pò andà fiero.
     Sverta, messe le seppie drent'ar cotto,
     cor sale e un ber peperoncino,
     un cucchiaio o due di pumidoro,
     quindi ir riso cor un bicchier di vino,
     un po' di brodo (circa 'n ramaiolo)
     rimestando in continuazione.
     E poi ir nero di seppia lei ci messe,
     ancora brodo, girando co' attenzione
     affinché di bruciato 'un ni prendesse.
     Promettendo: “Ci vedremo spesso”
     l'ospiti se n'andonno ben contenti:
     ir risotto era stato un successo
     anco s'aveva tinto a tutti i denti
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